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"Camminare, una rivoluzione", di Adriano Labbucci

Liguria - Primapagina

In questi anni c’è stato un proliferare di testi sul camminare e l’habitus mentale del camminatore. “Camminare, una rivoluzione”, di Adriano Labbucci (Donzelli, 2011) si differenzia leggermente dalla pletora di libri che, quasi con atteggiamento alla David Hume, si soffermano sulle sensazioni del camminatore..L’approccio è quello del ricercatore, di colui che va a caccia di riferimenti culturali anche nelle opere di studiosi e letterati che, apparentemente, vedevano tutto dalla loro “ebony tower” di letteratura e filosofia. “La più antica scrittura che si impari a leggere fu quella delle orme”, così Elias Canetti in “Massa e potere” parla dell’umile attività dei piedi. Ma camminare, secondo l’autore, significa anche uscire dal proprio spazio e confrontarsi con gli altri in una sorta di attraversamento dello spazio pubblico . Uscire, andare verso lo spazio urbano o agricolo o campestre: Bruce Chatwin ne fa una filosofia di vita nei suoi libri , quasi per scaricare la propria irrequietezza, come il poeta Arthur Rimbaud, che in Etiopia (guarda caso terra di grandi maratoneti) si lamenta del fatto di soffrire dolori al ginocchio e di non potere né camminare né correre. Accenni al camminare ci sono anche nel poeta americano Thomas Eliot: “Non finiremo mai di cercare. E la fine della nostra ricerca sarà l’arrivare al punto dal quale siamo partiti e il conoscere quel luogo per la prima volta”. Non c’è come l’attività fisica capace di liberare la mente e far sì che il camminare, il correre, siano l’iterazione di un’eterna prima volta. Il libro cita Seneca, le Sacre Scritture. Bruce Chatwin , a proposito del mondo orientale, così scriveva ne “Le Vie dei Canti”: “ Un manuale sufi, il Kashf-al-Mahjub, dice che il derviscio, alla fine del suo viaggio, non diventa il viandante ma la Via, ossia il luogo in cui sta passando qualcosa”. Un libro che si legge molto bene.

 
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